È notizia di qualche settimana fa che Pager, un macaco di 9 anni, è in grado di giocare ai videogiochi con il solo pensiero. Già a inizio febbraio, Elon Musk in persona lo aveva anticipato su Clubhouse parlando di Neuralink, la sua azienda che studia e produce chip cerebrali per lo sviluppo d’interfacce neurali. Ora che il video di Pager che gioca col pensiero è di pubblico dominio, la domanda che tutti si pongono è: i robot stanno arrivando?


Beh, ci sono una buona e una cattiva notizia: la cattiva è che i robot in realtà già sono arrivati da un po’; la bella è che non sono qui per portarci via il lavoro ma, in teoria, per facilitarci la vita.

Per robot non si intendono androidi stile Terminator, ma intelligenze artificiali (AI) in grado di fare i compiti noiosi ma d’importanza critica, eseguire analisi od occuparsi della contabilità. Alcuni di questi strumenti sono semplici applicazioni per il business online, altri sono pacchetti software costosi, costruiti su misura, armati con le più sofisticate intelligenze artificiali, che sono in grado di fare il tipo di lavoro cognitivo che una volta richiedeva squadre di umani altamente qualificati (e pagati).
I recenti progressi nell’ AI e nell’ apprendimento automatico hanno creato algoritmi in grado di superare medici, avvocati e banchieri in alcune parti del loro lavoro. Alcune di questi sono dotati di machine learning: man mano che i bot imparano a svolgere compiti di maggior valore e difficoltà riescono anche a fare “carriera” all’ interno dell’ azienda.

Le automazioni dei processi robotici stanno indubbiamente trasformando gli ambienti di lavoro a un ritmo sostenuto. Anche se i dirigenti generalmente fanno passare questi bot come un bene per tutti (in quanto “snelliscono le operazioni” e “liberano i lavoratori” da compiti banali e ripetitivi), in realtà non è raro constatare che stanno privando molte persone del loro lavoro. 

Secondo un’ indagine del New York Times si scopre che spesso dietro alle grandi iniziative di automazione, che si vantano di contribuire a migliori condizioni di lavoro, sia in realtà il taglio dei costi ad essere il fattore trainante.

Craig Le Clair, un analista di Forrester Research che studia il mercato dell’automazione aziendale, afferma che per i manager buona parte del fascino dei bot sta nel loro essere economici, facili da usare e compatibili con  sistemi back-end esistenti. Senza dimenticare, poi, che non chiedono giorni liberi, permessi o vacanze.


Il Covid-19 ha portato alcune aziende ad avvicinarsi all’automazione per affrontare molte delle problematiche portate dalla pandemia. Per altre, invece, gli eventi del 2020 hanno fornito una scusa per implementare ambiziosi piani di automazione già pianificati in precedenza.

Se prima della pandemia alcuni dirigenti avevano rifiutato offerte di automatizzazione perché preoccupati per un possibile effetto negativo sui dipendenti, ora, con milioni di persone già senza lavoro e con molte aziende che lottano per rimanere a galla, gli scrupoli sono diminuiti.

Basti pensare che le vendite di software di automazione stanno aumentando del 20%, dopo essere già aumentate del 12% lo scorso anno. La società di consulenza McKinsey, che aveva previsto prima della pandemia che 37 milioni di lavoratori statunitensi sarebbero stati spodestati dall’automazione entro il 2030, ha recentemente aumentato la sua proiezione a 45 milioni.

Intendiamoci, non tutti i bot sono della tipologia in grado cancellare posti di lavoro tradizionali. Come afferma Holly Uhl, un tecno-manager alla State Auto Insurance Companies, la sua azienda ha usato l’automazione per un totale di 173.000 ore di lavoro senza licenziare nessuno. “La persone sono preoccupate di perdere il lavoro o di non avere nulla da fare”, ha detto. “Ma una volta che abbiamo un bot attivo, e le persone vedono come viene applicata l’automazione, sono veramente entusiasti di non dover più fare quell’attività”.

Man mano che i bot diventano capaci di prendere decisioni complesse, piuttosto che fare singoli compiti ripetitivi, il loro potenziale cresce.

Jason Kingdon, l’amministratore delegato dell’azienda di robotica Blue Prism, si riferisce ai bot della sua azienda come “lavoratori digitali”. Il manager sostiene che lo shock economico della pandemia ha “aumentato massicciamente la consapevolezza” tra i suoi dirigenti sull’ampiezza delle aree di lavoro che non richiedono più il coinvolgimento umano. “Pensiamo che qualsiasi processo aziendale possa essere automatizzato”, Kingdon ritiene che oltre la metà dei compiti attualmente svolti nelle aziende possano essere espletati dalle macchine: una visione di un futuro in cui gli umani collaboreranno fianco a fianco con squadre di operatori digitali.


La paura che una “macchina” ci sostituisca è una paura quasi ancestrale. Gli esseri umani hanno temuto di perdere il lavoro a favore delle macchine per millenni; basti pensare che nel 350 a.C., Aristotele temeva che le arpe in grado di suonare da sole avrebbero reso i musicisti obsoleti. Eppure, lautomazione, non ha mai creato disoccupazione di massa: la tecnologia ha sempre generato nuovi lavori per sostituire quelli che ha distrutto. E gli ottimisti dell’intelligenza artificiale di oggi sostengono che anche se le nuove tecnologie potranno spostare alcuni lavoratori, questi saranno comunque in grado di stimolare la crescita economica e creare nuovi lavori, migliori e più soddisfacenti.

E’ ovvio che questa non sia una garanzia.

Man mano che l’intelligenza artificiale entra nei processi produttivi costringe i lavoratori – a ogni livello – ad adattarsi e a concentrarsi sullo sviluppo di quelle competenze prettamente umane che le macchine non possono facilmente replicare.

Per ora, la cooperazione tra umano e IA è ancora inscindibile.

E mentre vediamo una scimmia che può fare cose che noi umani non potevamo nemmeno immaginare, possiamo tirare un sospiro di sollievo che la rivoluzionaria e autocosciente intelligenza artificiale chiamata Skynet, del film Terminator, non sia stata  ancora inventata.

O sì…?

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C’è un’espressione popolare nel mondo della pallacanestro: ad un allenatore il fallo tecnico non viene fischiato; è lui che decide di farselo fischiare.
Prendiamo Gregg Popovich, l’allenatore dei San Antonio Spurs e della nazionale a stelle e strisce, il coach più pagato della NBA. Quando la sua squadra non sta giocando con abbastanza intensità, quando gli arbitri non sono in linea con la sua visione di gioco, quando il pubblico ha bisogno di essere coinvolto, o quando è semplicemente stanco di guardare la sua squadra non seguire le sue indicazioni, eccolo arrabbiarsi “a comando”, allo scopo di farsi affibbiare un fallo tecnico. A volte, prima di continuare a sbraitare per prendere un secondo fallo tecnico (con conseguente espulsione) anticipa al suo vice-allenatore che sarà lui a dover prendere in mano le redini della partita.

La cosa pazzesca è che questa esplosione di rabbia calcolata ottiene, spesso, l’effetto desiderato. La squadra si sveglia. Gli arbitri iniziano a cambiare metro di giudizio. II pubblico diventa più interessato.

Inutile dire che si tratta di una situazione in cui è difficile trovare un punto di equilibrio: spesso quando a giocatori ed allenatori viene fischiato un fallo tecnico, l’esplosione di rabbia significa solo un danno per la squadra in termini di punti, senza nessun reale vantaggio. I pericoli connessi alle esplosioni di rabbia erano già analizzati al tempo dei filosofi stoici: questi mettevano in guardia di fronte alle passioni ed emozioni che non si è in grado di controllare, quelle che possono esplodere nei momenti meno opportuni. Di fronte ad una rabbia intenzionale e diretta, come quella di Popovich, che cosa avrebbero pensato?

Probabilmente, sarebbero stati d’accordo. Sicuramente, il filosofo imperatore Marco Aurelio, nel suo ruolo di comando, si trovò spesso ad urlare di rabbia. A volte è l’unico modo per superare le difese delle persone, e fare arrivare il proprio messaggio. Per catturare la loro attenzione e stabilire l’autorità necessaria in un ruolo come era quella imperiale. Un imperatore che non si fosse mai arrabbiato, che le avesse lasciate passare tutte, non avrebbe ottenuto il rispetto del suo popolo: un tale atteggiamento, troppo disinvolto, avrebbe potuto significare la perdita di milioni di vite. Un ragionamento, che in un contesto diverso, vale anche rispetto a leadership e management. Tuttavia, c’è una grande differenza tra la rabbia finalizzata ad un obiettivo e quella senza controllo: un altro imperatore romano, Adriano, si arrabbio così tanto con un suo assistente da arrivare a pugnalarlo in un occhio.

Può essere utile anche ricordare una vicenda collegata ad un altro stoico, Diogene. Durante un suo discorso, dedicato proprio al tema della rabbia, venne disturbato da una persona in mezzo alla folla, che non soddisfatta gli sputò addosso. “Non sono arrabbiato”, rispose Diogene con un sorriso, “ma non sono sicuro se questo sia giusto”. Ecco trapelare l’idea di cui stiamo parlando: a volte la rabbia può essere usata per essere più efficaci. Quando abbiamo la situazione sotto controllo, c’è una grande differenza tra apparire arrabbiati e perdere davvero la pazienza.

In conclusione, come regola generale, la rabbia deve essere evitata, tenuta sotto controllo. Una volta raggiunto questo obiettivo, così come il fuoco, essa può essere utilizzata come strumento di leadership, ma solamente dopo essersi preparati ed allenati in modo adeguato.

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La forza di volontà è collegata all’autocontrollo.

È l’abilità di resistere alla distrazione, rimanere concentrati e ritardare la gratificazione.


Una ricerca condotta dallo psicologo Roy Baumeister mostra come la forza di volontà vada di pari passo con i livelli di energia: il che ci aiuta a capire perché essa si “consumi” con il passare delle ore.

Ad esempio, le persone che stanno cercando di perdere peso, spesso scoprono di riuscire a seguire una dieta fino a sera, per poi soccombere a una vaschetta di gelato prima di dormire.

Questo spiega anche la fatica collegata al processo decisionale, ovvero il fatto che, quando siamo costretti a risolvere una serie di problemi difficili, la qualità delle soluzioni diminuisca nel tempo.

Se si parla con i grandi performer dello spettacolo, la maggior parte concorda sul fatto che la forza di volontà scemi nel corso della giornata: si tratta di qualcosa direttamente collegato a ciò che Baumeister ha definito “esaurimento dell’ego”.


Se la forza di volontà si indebolisce con il passare delle ore, diventa importante non forzarla oltre il dovuto.

La strategia corretta è quindi quella di iniziare la propria giornata affrontando prima l’impegno più gravoso, passando poi (in ordine decrescente) a quelli più semplici: mettere quindi al primo posto della propria lista di cose da fare quel compito che, una volta portato a termine, produrrà il risultato più importante del giorno.

Dato che la forza di volontà diminuisce nel tempo, il secondo e il terzo obiettivo sembreranno essere più difficili, ma si sarà affrontata l’attività più importante con il massimo delle forze.


Anche se il ragionamento fila, ci sono però alcuni aspetti che meritano di essere approfonditi.

Quando siamo stanchi, l’attività della corteccia prefrontale diminuisce: questo porta a gravi deficit di prestazione. L’attenzione vacilla, la cognizione rallenta e gli errori di elaborazione arrivano con sempre maggiore frequenza. Questo va a colpire in particolar modo la creatività.

Quando siamo stanchi, non ci preoccupiamo di cercare collegamenti tra le idee: si ha la tendenza a prendere la scelta più facile a disposizione, senza badare alle conseguenze.

Quindi come fare per ripristinare la forza di volontà in questi momenti?

Se aumentare i livelli di energia attraverso l’alimentazione può essere di aiuto, sono comunque sempre necessari alcuni “cambiamenti di stato”: i già citati performer suggeriscono attività quali pause, meditazione ed esercizio fisico.

Tutti questi interventi non solo resettano la nostra fisiologia, ma cambiano anche il nostro stato e attivano la nostra neurobiologia, che sembra essere un’altra parte fondamentale di questo puzzle.

Alla luce di tutto questo, allora, affrontiamo ogni mattina con slancio, pronti a dedicarci,  per prima cosa, alle attività più difficili.

 

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Il primo incontro tra i due giovani psicologi Edward Deci e Richard Ryan avvenne nel 1977 presso il campus dell’Università di Rochester.

Deci aveva appena iniziato la pratica professionale, mentre Ryan era ancora un dottorando. Entrambi condividevano l’interesse per la Scienza della Motivazione, argomento che hanno condiviso e consolidato nel corso di una collaborazione di oltre cinquant’anni, che ha ribaltato la maggior parte delle idee fondamentali in questo campo.

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Prima che Edward Deci e Richard Ryan non aprissero la strada a quello che oggi conosciamo come Teoria dell’Autodeterminazione, gli psicologi dell’ epoca definivano la motivazione semplicemente come “l’energia necessaria per l’azione”.

Il parametro di valutazione era soltanto binario: una persona o aveva la giusta quantità di motivazione o non l’aveva. L’ energia motivazionale veniva considerata come una semplice caratteristica del singolo. In pratica, era possibile misurare la quantità della motivazione che una persona provava, ma non la qualità o la tipologia della stessa.

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Le ricerche dei due studiosi li avevano invece portati a credere che vi fossero diversi tipi di motivazione, in grado di produrre risultati diversi. Decisero quindi di testare le loro idee attraverso un confronto diretto.

In una lunga serie di esperimenti, contrapposero le motivazioni interne (come passione e sentimento)  a quelle esterne (come prestigio e successo), mettendo i risultati a confronto.

La scoperta fu che la motivazione interna è molto più efficace della motivazione esterna in ogni situazione, eccetto quelle in cui i nostri bisogni primari non sono stati soddisfatti. Inoltre emerse che una delle divisioni cruciali si trovava tra la motivazione controllata (motivazione esterna) e la motivazione autonoma (motivazione interna).

Se sei stato sedotto, costretto oppure pressato a fare qualcosa, questa è una motivazione controllata, è un qualcosa che si deve fare.

La motivazione autonoma è invece l’opposto, quando ci si trova a fare qualcosa semplicemente per scelta.

Deci e Ryan in questo modo scoprirono che, in ogni situazione, la motivazione autonoma ha il sopravvento sulla motivazione controllata. L’ autonomia è sempre il motore più potente.

Infatti, in molte situazioni, la motivazione controllata non produce i risultati desiderati, anzi. Quando sono sotto pressione, le persone tendono a cercare scorciatoie.

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L’esempio citato da Deci ama è il caso Enron.

Nei primi anni 2000, il colosso dell’energia decise che il modo migliore per motivare i propri collaboratori i fosse quello di dare ai dipendenti più produttivi importanti incentivi economici, palese esempio di motivazione per seduzione.

Presto la gente capì invece che il modo migliore per ottenere quei bonus era quello di gonfiare artificialmente i prezzi delle azioni, commettendo una frode aziendale che avrebbe in seguito portato la società al fallimento.

Il caso Enron viene spesso presentato come un ammonimento rispetto ai rischi collegati ad avidità e arroganza: in realtà si tratta di un aneddoto su come la motivazione sbagliata possa facilmente produrre comportamenti sbagliati.

 Secondo Deci e Ryan, si sfrutta correttamente l’autonomia quando si agisce per “interesse e divertimento”, allineati “con le nostre convinzioni e valori fondamentali”.

Detto diversamente, il sistema di ricerca ama essere il responsabile dei tipi di risorse che si sta cercando.

 Un’altro elemento scoperto dai due studiosi è che l’autonomia che ci trasforma in una versione molto più efficace di noi stessi. La spinta neurochimica da essa fornita, aumenta la nostra spinta e implementa una serie di abilità aggiuntive.

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Quando controlliamo la nostra nave, siamo più concentrati, produttivi, ottimisti, resistenti, creativi e sani. Il punto? Ottimizzate l’autonomia il più possibile. La vostra biologia vi ringrazierà.

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Ma cos’è Clubhouse?

Clubhouse è una nuova piattaforma social di solo audio – ebbene si, niente foto patinate, niente ringlight, niente chat – che nasce da una start up statunitense nell’aprile 2020 dall’idea di Paul Davison e Rohan Seth. Inizialmente il neonato social aveva al suo interno solo utenti accuratamente selezionati e di spicco. Il boom in Europa pare sia stato del tutto casuale ed esplode a metà gennaio 2021 quando inizia il tam-tam tra i digital workers e tutti hanno iniziato a parlarne.

Come si entra?

Come in tutti i club esclusivi che si rispetti c’è la selezione all’ingersso. Partiamo col dire che Clubhouse è disponibile solo per i dispositivi Apple. Quindi se il mondo si divide tra mele e robottini già la metà degli utenti viene tagliata fuori; in ogni caso anche se si ha un iPhone o un iPad non è così facile accedervi. Sì, perché non basta scaricare l’app e crearsi un account. Dopo aver terminato le formalità di registrazione si viene fatti “accomodare” in una waiting list la cui lunghezza non ci è data di sapere. Ovviamente c’è il modo di saltare la lista e accedere senza fare la fila: farsi invitare da qualcuno che è già dentro tramite iMessage.

Come funziona?

Una volta dentro l’intefaccia è veramente minimal. Nella home si trovano le stanze virtuali, chiamate “room”, nelle quali si trovano gli utenti intenti in chiacchiere varie. La room è composta da tre parti: il palco, dove ci sono gli amministratori della room e le persone a cui i moderatori hanno dato “diritto di parola” detti speaker, il sottopalco, dove si trovano gli amici degli speaker, e la platea ovvero dove si trovano tutti gli altri. Chi non è speaker può chiedere salire sul palco e dire la propria toccando l’icona della mano, altrimenti si può anche  rimanere semplicemente ad ascoltare come fosse una radio o un podcast.

Perché c’è tutto questo fermento intorno a Clubhouse?

Le ragioni sono molteplici. Per prima cosa la novità: in mondo in cui la vita media di un post o di una notizia è di massino 24 ore tutti vogliono essere i primi a usare qualcosa di nuovo, prima che venga considerata datata. Il secondo motivo è l’effetto carpe diem: visto che le room sono in diretta e senza possibilità di streaming (vietatissima la registrazione) c’è il desiderio di il voler stare lì, sempre su pezzo, perché non sia mai che entra Elon Musk all’ improvviso in una room che fai, non ci vai a sentirlo ad un telefono di distanza? Eh, si perché non importa quanto si è lontani nella vita reale, all’ interno di Clubhouse la sensazione che si percepisce è di intimità, nonostante la distanza fisica. Il terzo, e tutt’altro che trascurabile motivo è l’esclusività dovuta dalla scarsità degli inviti: ogni utente ne ha a disposizione solo due. Due, e soltanto due inviti da distribuire tra amici, parenti, colleghi e conoscenti mettendo a dura prova la classifica delle priorità di ognuno di noi.

Non che il metodo ad inviti nel mondo digital sia una novità. Google, agli esordi del proprio servizio di posta elettronica, aveva adottato lo stesso meccanismo, ma non si ricordano episodi in cui le persone erano disposte a pagare 50$ per avere un invito su Gmail.

Le cose positive

Il lato interessante è sicuramente la modalità di interfaccia solo volale. Dalle chat istantanee dove non c’è ne limitazione di caratteri ne di spesa che inducono le persone ad un uso spesso ossessivo compulsivo del testo scritto – i più navigati ricorderanno l’era degli sms con un limite di 160 caratteri per un costo di 280 lire a messaggio. Sì, lire. –  passando per le videochiamate e i videomessaggi, improvvisamente si passa alle lunghissime chiacchierate esclusivamente vocali e senza nessun supporto visivo. Inoltre, essendo un social con utenti selezionati si può dire che è un luogo ancora genuino, friendly e politcally correct. Entrando nelle room si ha la possibilità di parlare con molta naturalezza con persone con cui nella vita reale difficilmente si sarebbe venuti a contatto tra cui personaggi famosi, imprenditori, professionisti del mondo digital, artisti e quant’altro e, se la chiacchierata è stata gradevole, ci si scambia anche il follow. Non si sa mai che un domani serve il contatto di un game designer, di un deejay radiofonico, di investitore di alta finanza o di un produttore discografico. Insomma, si è rivelato davvero un ottimo modo di fare networking.

Le cose negative

Purtroppo non è tutt’oro quello che luccica e per ora la nota dolente è un pò la monotonia degli argomenti, almeno per le room in italiano. I topic più gettonati sono il marketing, il digital, l’imprenditoria, la crescita finanziaria, il busineess e l’attualità. Argomenti interessantissimi ma dopo un pò la sensazione è quella di stare al bar con degli amici che parlano solo di lavoro. Per ora ci sono poche room in cui si parla di altri intessi o hobby. Del resto se la prima domanda che tutti ti rivolgono è “che lavoro fai?” Si capisce che l’interesse principale è sapere come uno si paga le bollette e non quello che uno fa per divertirsi. Ma questo è una criticità sociale che va oltre Clubhouse, in effetti.

In conclusione

Pollice verso o pollice recto?

Incipit è molto interessante e, a parte l’eccitazione di essere tra i primi pionieri di un nuovo fenomeno che può entusiasmare più del dovuto, per ora è un social che funziona e sta funzionando molto bene anche a livello tecnico, non si sono riscontati problemi di lag anche in stanze da 1700 persone. Cosa c’è di rivoluzionario? Probabilmente è la possibilità di chiacchierare veramente con tutti e questo senso di vicinanza che si prova nelle room.  Bisognerà vedere come si svilupperà il fenomeno nei prossimi mesi, fare una valutazione più oggettiva quando diventerà mainstream, quando uscirà dalla nicchia e sarà senza selezione all’ ingresso anche se diciamolo, l’attesa per entrare in Clubhouse è essa stessa Clubhouse.

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Comunicare online è molto più difficile che dal vivo: ce ne siamo resi conto in questi mesi. Come possiamo farlo al meglio?

Julian Treasure  è un esperto di fama internazionale sull’utilizzo della voce come strumento di comunicazione: in questo Ted Talk, disponibile con i sottotitoli in italiano, ci offre numerosi spunti utili.

Puoi guardare il video attraverso questo link.

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Una delle ultime citazioni presentate nella nostra pagina Linkedin all’interno della serie #teamtor, era dedicata a Jim Valvano. Il grande allenatore della pallacanestro universitaria, portava la sua riflessione su uno degli elementi chiave del gioco di squadra:

“Mio padre mi ha donato il più grande regalo che può essere fatto a un’altra persona: credeva in me.”

Parole che già da sole valgono come importante stimolo, ma che possono assumere una valenza ancora più profonda se messe di fianco a una storia, sempre del mondo dello sport, ma più lontana nel tempo.


Nella primavera del 1921, un giovane giocatore di baseball si presentò per un provino al Polo Grounds, campo di gioco dei New York Giants. Il selezionatore era John McGraw, l’allenatore della squadra newyorchese, considerato uno dei migliori talent scout dell’epoca.
Il ragazzo si chiamava invece Lou Gehrig, destinato a diventare uno dei nomi più importanti di questo sport.

Il provino partì nel migliore dei modi. In fase di attacco, Gehrig colpì diverse palle lungo tutta la profondità del campo. Era vivace e veloce: si poteva intravedere tutta la sua potenza in battuta. Dopo la valutazione delle capacità offensive, il test si spostò sulla difesa della prima base. La prima palla gli passò tra le gambe. Il provino finì in quel momento: per McGraw era stato abbastanza.

La storia del baseball ha dimostrato l’enormità dell’errore di valutazione commesso dall’allenatore dei Giants. Aveva giudicato il ragazzo in un istante: Gehrig era poco più che un bambino, timido e inesperto. Così facendo aveva perso la possibilità di avere al servizio della squadra uno dei giocatori più leggendari della storia del batti e corri. Approdato ai rivali Yankees, Gehrig (oltre a giocare con successo in difesa come prima base) avrebbe battuto centinaia di fuoricampo e vinto sei campionati delle serie maggiori.


Quale lezione emerge da questa vicenda rispetto alla valutazione del talento?

Le persone sono un codice: anche i nostri collaboratori e i candidati che dobbiamo selezionare e valutare. Il rischio, a volte, è quello di sentirsi troppo sicuri delle nostre capacità di giudizio, saltare troppo in fretta alle conclusioni, che potrebbero non essere esatte.

 

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“Ci parli di lei“

Il candidato è appena entrato nella stanza (o, nello scenario 2020, si è appena attivato Zoom…).

Nonostante sia una domanda semplice, molte persone (soprattutto quelle meno esperte) tendono ad andare in difficoltà.

Non si tratta necessariamente di un quesito posto solo per rompere il ghiaccio. 

L’obiettivo del selezionatore è anche quello di testare la capacità del candidato nel gestire l’imprevisto e saper organizzare il proprio pensiero; di trovare una validazione a quanto già riscontrato dall’analisi di curriculum e cover letter.

Da qui l’importanza di farsi trovare preparati con un discorso chiaro, quello che negli Stati Uniti si chiama “signature speech”. Informazioni ben definite e strutturate rispetto alla sfera professionale: dettagli su  carriera, competenze e percorso di studi.

Magari parlando anche dei propri punti di forza e illustrando le abilità migliori,  quelle che per l’azienda possono rappresentare un valore aggiunto.

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Come è destinato a cambiare il mercato del lavoro nei prossimi anni?

La risposta a questa domanda non è semplice, viste le numerosi variabili che devono essere analizzate.

L’emergenza coronavirus ha accelerato una serie di cambiamenti, collegati all’emergere di nuove tecnologie, destinati a trasformare il mondo del lavoro tradizionale.

Si sta verificando, oramai da alcuni anni, la transizione dalla new economy a quella che viene definita digital economy, con l’avvento dirompente di tecnologie quali:
intelligenza artificiale
robotica e stampanti 3D
internet of things (l’internet delle cose, in cui miliardi di oggetti e sensori sono collegati alla rete, 24 ore su 24)
fintech (tecnofinanza, o tecnologia finanziaria: fornitura di prodotti e servizi attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione)

Diretta conseguenza di tutto questo sarà una mutazione economico-strutturale generale, fondata su questi assi:
learn from home (imparare da casa)
shop from home (fare acquisti dal proprio domicilio)
work from home (lavorare da casa)
care at home (assistenza personale e medica, direttamente presso la propria abitazione)
play at home (tutte le principali forme di intrattenimento usufruibili da casa)

I primi tre aspetti sono già testati con successo, a livello globale, durante i mesi del lockdown.


In questo scenario le maggiori opportunità di occupazione saranno presenti (anzi, lo sono già da ora), in quell’area che viene identificata dall’acronimo STEM:
Science
Technology
Engineering
Mathematics

Questa rivoluzione nel mondo del lavoro è destinata ad avere forti ripercussioni anche nell’ambito della didattica, soprattutto a livello universitario.

Diventa quasi indispensabile scegliere studi in linea con queste tendenze. Sono molti i percorsi di laurea che mai come ora rischiano di sfociare, se non nella disoccupazione, in ruoli non soddisfacenti rispetto al tempo ed alle risorse investite negli studi.

E’ allora necessario prediligere le competenze e le capacità richieste dalle nuove dinamiche del mercato del lavoro.

Cercare, infine, di capire quali tra le attività lavorative tradizionali sono destinate ad avere una forte contrazione, proprio a causa delle tecnologie menzionate all’inizio.

In primo luogo, molte tra libere professioni classiche, che risentiranno della sempre più diffusa adozione della blockchain come mezzo digitale di archiviazione e certificazione dei processi e delle informazioni.

Il settore dei servizi (agenzie viaggi, assicurazioni, attività finanziarie), che sarà trasformato dai nuovi sistemi di software interfacciati all’intelligenza artificiale. Il tutto sulla falsariga della già altissima concorrenza dei servizi online alle tradizionali agenzie con sportello.

Da ultimo, anche il settore della metalmeccanica, dove le catene di assemblaggio saranno quasi tutte sostituite da sistemi ad alto livello di automatizzazione robotica.


Decidere cosa studiare è fondamentale per il proprio futuro professionale, così come lo è mantenersi continuamente aggiornati, anche attraverso le numerose iniziative e risorse offerte da Tor e da Lavoropiù.

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Coronavirus: Leadership and Recovery
(Essere leader durante la crisi: prepararsi per la ripresa)
Harvard Business Review, Luglio 2020

Mentre la crisi collegata alla pandemia covid-19 sta facendo pagare un pesante pedaggio all’economia globale, le organizzazioni maggiormente orientate al futuro stanno andando oltre la prima fase di gestione della crisi, per essere pronte quando il peggio sarà alle spalle.
Le aziende si trovano a vivere in un mondo in cui Il tradizionale modo di condurre gli affari è cambiato: la priorità diventa la capacità di adattarsi rapidamente, per evitare il rischio di rimanere inesorabilmente indietro.
Che cosa può fare oggi un manager, in ottica sia personale che aziendale, per affrontare le nuove sfide in essere, costruendo allo stesso tempo le fondamenta per uscire da tutto questo più forti di prima?


Coronavirus: Leadership and Recovery, pubblicato nelle settimane scorse da Harvard Business Review, fornisce una serie di riflessioni rispetto alla gestione aziendale al tempo del coronavirus.
Il crisis management è oggi un tema molto caldo: ma se da un lato è importante essere concentrati sulla sopravvivenza immediata alla crisi, dall’altro il costante senso di urgenza provoca una minore attenzione ad un orizzonte temporale più a lungo termine, ma altrettanto importante.
Questo inibisce quelle riflessioni più ampie e profonde necessarie per rispondere, in modo effettivo e duraturo, alla crisi. Da qui la necessità di un libro che affrontasse il tema in dettaglio.


Il libro è diviso in 4 parti:
1 Leading your business (Guidare la propria attività)
Come argomento di apertura, vengono affrontati i comportamenti chiave della leadership.
Partendo dalla necessaria analisi dei rischi legali, il discorso si sposta ad esplorare le modalità con cui i grandi leader del passato hanno affrontato situazioni di estrema emergenza: molti spunti grazie a cui trovare ispirazione e motivazione di fronte alle sfide che il mondo del lavoro sta affrontando in questi mesi.

2 Managing your workforce (Gestione dei collaboratori)
In generale, vi è stata una presa coscienza del superamento dello shock iniziale che ha accompagnato le prime settimane del lavoro a distanza. La sfida rimane invece ancora aperta su altri temi:
– implementare una cultura di innovazione
– mantenere motivati i collaboratori a distanza
– comunicare su tematiche scottanti (non ultimi i licenziamenti)
Nelle situazioni in cui il lavoro rimane prevalentemente presenziale (sanità, ristorazione, retail, etc.) l’obiettivo principale è quello di mantenere i propri collaboratori in una situazione di totale sicurezza.

3 Managing yourself (Gestione di se stessi)
Dopo aver pensato al benessere e alla produttività del proprio team, arriva il momento di affrontare l’emergenza a livello individuale. E’ oggi ancora più evidente, rispetto a prima, che vita personale, benessere fisico e salute mentale sono strettamente interconnessi, gli uni con gli altri: una dinamica a cui molte aziende non avevano mai prestato particolare attenzione.
In questa parte del libro, si toccano interessanti argomenti quali la prevenzione del burnout e la gestione dello stress in momenti di particolare difficoltà.

4 Seeing beyond the crisis (Guardare oltre la crisi)
La sezione finale affronta l’analisi della tipologia di pensiero necessaria per avere un piano di azione in grado di andare oltre la dimensione della crisi. Parliamo di strategie che sappiano miscelare visione e consolidamento, rispetto a:
– come muoversi in un’economia globale post coronavirus, in cui il recupero non sarà immediato
– assicurarsi che il rapporto con i clienti superi le problematiche connesse alla pandemia
– riflettere su come il panorama della legislazione del mondo del lavoro siano destinate a conoscere una grande trasformazione
Per ultimo, un invito alle aziende a coltivare quella nuova cultura dell’immaginazione, oggi fondamentale per costruire un futuro di successo.


La storia ha insegnato che è proprio in situazioni come quella che stiamo vivendo che i grandi leader e le grandi aziende indicano il percorso più corretto da seguire.

Un vero leader è tale non solo quando guida la propria strada verso i tradizionali obiettivi aziendali ma, soprattutto, quando sono di ispirazione per sperimentare ed imparare durante i momenti di crisi, trasformando veramente le minacce in opportunità.

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