È notizia di qualche settimana fa che Pager, un macaco di 9 anni, è in grado di giocare ai videogiochi con il solo pensiero. Già a inizio febbraio, Elon Musk in persona lo aveva anticipato su Clubhouse parlando di Neuralink, la sua azienda che studia e produce chip cerebrali per lo sviluppo d’interfacce neurali. Ora che il video di Pager che gioca col pensiero è di pubblico dominio, la domanda che tutti si pongono è: i robot stanno arrivando?


Beh, ci sono una buona e una cattiva notizia: la cattiva è che i robot in realtà già sono arrivati da un po’; la bella è che non sono qui per portarci via il lavoro ma, in teoria, per facilitarci la vita.

Per robot non si intendono androidi stile Terminator, ma intelligenze artificiali (AI) in grado di fare i compiti noiosi ma d’importanza critica, eseguire analisi od occuparsi della contabilità. Alcuni di questi strumenti sono semplici applicazioni per il business online, altri sono pacchetti software costosi, costruiti su misura, armati con le più sofisticate intelligenze artificiali, che sono in grado di fare il tipo di lavoro cognitivo che una volta richiedeva squadre di umani altamente qualificati (e pagati).
I recenti progressi nell’ AI e nell’ apprendimento automatico hanno creato algoritmi in grado di superare medici, avvocati e banchieri in alcune parti del loro lavoro. Alcune di questi sono dotati di machine learning: man mano che i bot imparano a svolgere compiti di maggior valore e difficoltà riescono anche a fare “carriera” all’ interno dell’ azienda.

Le automazioni dei processi robotici stanno indubbiamente trasformando gli ambienti di lavoro a un ritmo sostenuto. Anche se i dirigenti generalmente fanno passare questi bot come un bene per tutti (in quanto “snelliscono le operazioni” e “liberano i lavoratori” da compiti banali e ripetitivi), in realtà non è raro constatare che stanno privando molte persone del loro lavoro. 

Secondo un’ indagine del New York Times si scopre che spesso dietro alle grandi iniziative di automazione, che si vantano di contribuire a migliori condizioni di lavoro, sia in realtà il taglio dei costi ad essere il fattore trainante.

Craig Le Clair, un analista di Forrester Research che studia il mercato dell’automazione aziendale, afferma che per i manager buona parte del fascino dei bot sta nel loro essere economici, facili da usare e compatibili con  sistemi back-end esistenti. Senza dimenticare, poi, che non chiedono giorni liberi, permessi o vacanze.


Il Covid-19 ha portato alcune aziende ad avvicinarsi all’automazione per affrontare molte delle problematiche portate dalla pandemia. Per altre, invece, gli eventi del 2020 hanno fornito una scusa per implementare ambiziosi piani di automazione già pianificati in precedenza.

Se prima della pandemia alcuni dirigenti avevano rifiutato offerte di automatizzazione perché preoccupati per un possibile effetto negativo sui dipendenti, ora, con milioni di persone già senza lavoro e con molte aziende che lottano per rimanere a galla, gli scrupoli sono diminuiti.

Basti pensare che le vendite di software di automazione stanno aumentando del 20%, dopo essere già aumentate del 12% lo scorso anno. La società di consulenza McKinsey, che aveva previsto prima della pandemia che 37 milioni di lavoratori statunitensi sarebbero stati spodestati dall’automazione entro il 2030, ha recentemente aumentato la sua proiezione a 45 milioni.

Intendiamoci, non tutti i bot sono della tipologia in grado cancellare posti di lavoro tradizionali. Come afferma Holly Uhl, un tecno-manager alla State Auto Insurance Companies, la sua azienda ha usato l’automazione per un totale di 173.000 ore di lavoro senza licenziare nessuno. “La persone sono preoccupate di perdere il lavoro o di non avere nulla da fare”, ha detto. “Ma una volta che abbiamo un bot attivo, e le persone vedono come viene applicata l’automazione, sono veramente entusiasti di non dover più fare quell’attività”.

Man mano che i bot diventano capaci di prendere decisioni complesse, piuttosto che fare singoli compiti ripetitivi, il loro potenziale cresce.

Jason Kingdon, l’amministratore delegato dell’azienda di robotica Blue Prism, si riferisce ai bot della sua azienda come “lavoratori digitali”. Il manager sostiene che lo shock economico della pandemia ha “aumentato massicciamente la consapevolezza” tra i suoi dirigenti sull’ampiezza delle aree di lavoro che non richiedono più il coinvolgimento umano. “Pensiamo che qualsiasi processo aziendale possa essere automatizzato”, Kingdon ritiene che oltre la metà dei compiti attualmente svolti nelle aziende possano essere espletati dalle macchine: una visione di un futuro in cui gli umani collaboreranno fianco a fianco con squadre di operatori digitali.


La paura che una “macchina” ci sostituisca è una paura quasi ancestrale. Gli esseri umani hanno temuto di perdere il lavoro a favore delle macchine per millenni; basti pensare che nel 350 a.C., Aristotele temeva che le arpe in grado di suonare da sole avrebbero reso i musicisti obsoleti. Eppure, lautomazione, non ha mai creato disoccupazione di massa: la tecnologia ha sempre generato nuovi lavori per sostituire quelli che ha distrutto. E gli ottimisti dell’intelligenza artificiale di oggi sostengono che anche se le nuove tecnologie potranno spostare alcuni lavoratori, questi saranno comunque in grado di stimolare la crescita economica e creare nuovi lavori, migliori e più soddisfacenti.

E’ ovvio che questa non sia una garanzia.

Man mano che l’intelligenza artificiale entra nei processi produttivi costringe i lavoratori – a ogni livello – ad adattarsi e a concentrarsi sullo sviluppo di quelle competenze prettamente umane che le macchine non possono facilmente replicare.

Per ora, la cooperazione tra umano e IA è ancora inscindibile.

E mentre vediamo una scimmia che può fare cose che noi umani non potevamo nemmeno immaginare, possiamo tirare un sospiro di sollievo che la rivoluzionaria e autocosciente intelligenza artificiale chiamata Skynet, del film Terminator, non sia stata  ancora inventata.

O sì…?

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Coronavirus: Leadership and Recovery
(Essere leader durante la crisi: prepararsi per la ripresa)
Harvard Business Review, Luglio 2020

Mentre la crisi collegata alla pandemia covid-19 sta facendo pagare un pesante pedaggio all’economia globale, le organizzazioni maggiormente orientate al futuro stanno andando oltre la prima fase di gestione della crisi, per essere pronte quando il peggio sarà alle spalle.
Le aziende si trovano a vivere in un mondo in cui Il tradizionale modo di condurre gli affari è cambiato: la priorità diventa la capacità di adattarsi rapidamente, per evitare il rischio di rimanere inesorabilmente indietro.
Che cosa può fare oggi un manager, in ottica sia personale che aziendale, per affrontare le nuove sfide in essere, costruendo allo stesso tempo le fondamenta per uscire da tutto questo più forti di prima?


Coronavirus: Leadership and Recovery, pubblicato nelle settimane scorse da Harvard Business Review, fornisce una serie di riflessioni rispetto alla gestione aziendale al tempo del coronavirus.
Il crisis management è oggi un tema molto caldo: ma se da un lato è importante essere concentrati sulla sopravvivenza immediata alla crisi, dall’altro il costante senso di urgenza provoca una minore attenzione ad un orizzonte temporale più a lungo termine, ma altrettanto importante.
Questo inibisce quelle riflessioni più ampie e profonde necessarie per rispondere, in modo effettivo e duraturo, alla crisi. Da qui la necessità di un libro che affrontasse il tema in dettaglio.


Il libro è diviso in 4 parti:
1 Leading your business (Guidare la propria attività)
Come argomento di apertura, vengono affrontati i comportamenti chiave della leadership.
Partendo dalla necessaria analisi dei rischi legali, il discorso si sposta ad esplorare le modalità con cui i grandi leader del passato hanno affrontato situazioni di estrema emergenza: molti spunti grazie a cui trovare ispirazione e motivazione di fronte alle sfide che il mondo del lavoro sta affrontando in questi mesi.

2 Managing your workforce (Gestione dei collaboratori)
In generale, vi è stata una presa coscienza del superamento dello shock iniziale che ha accompagnato le prime settimane del lavoro a distanza. La sfida rimane invece ancora aperta su altri temi:
– implementare una cultura di innovazione
– mantenere motivati i collaboratori a distanza
– comunicare su tematiche scottanti (non ultimi i licenziamenti)
Nelle situazioni in cui il lavoro rimane prevalentemente presenziale (sanità, ristorazione, retail, etc.) l’obiettivo principale è quello di mantenere i propri collaboratori in una situazione di totale sicurezza.

3 Managing yourself (Gestione di se stessi)
Dopo aver pensato al benessere e alla produttività del proprio team, arriva il momento di affrontare l’emergenza a livello individuale. E’ oggi ancora più evidente, rispetto a prima, che vita personale, benessere fisico e salute mentale sono strettamente interconnessi, gli uni con gli altri: una dinamica a cui molte aziende non avevano mai prestato particolare attenzione.
In questa parte del libro, si toccano interessanti argomenti quali la prevenzione del burnout e la gestione dello stress in momenti di particolare difficoltà.

4 Seeing beyond the crisis (Guardare oltre la crisi)
La sezione finale affronta l’analisi della tipologia di pensiero necessaria per avere un piano di azione in grado di andare oltre la dimensione della crisi. Parliamo di strategie che sappiano miscelare visione e consolidamento, rispetto a:
– come muoversi in un’economia globale post coronavirus, in cui il recupero non sarà immediato
– assicurarsi che il rapporto con i clienti superi le problematiche connesse alla pandemia
– riflettere su come il panorama della legislazione del mondo del lavoro siano destinate a conoscere una grande trasformazione
Per ultimo, un invito alle aziende a coltivare quella nuova cultura dell’immaginazione, oggi fondamentale per costruire un futuro di successo.


La storia ha insegnato che è proprio in situazioni come quella che stiamo vivendo che i grandi leader e le grandi aziende indicano il percorso più corretto da seguire.

Un vero leader è tale non solo quando guida la propria strada verso i tradizionali obiettivi aziendali ma, soprattutto, quando sono di ispirazione per sperimentare ed imparare durante i momenti di crisi, trasformando veramente le minacce in opportunità.

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All’inizio dell’emergenza Covid-19, in pochi giorni, anche le aziende meno portate all’innovazione si sono trovate a dover far lavorare il proprio team in remoto. Di questo se ne è già parlato in abbondanza.

Sdoganata tale possibilità, in attesa di una normativa che vada oltre le necessità derivate dalle esigenze a breve termine, sono in molti a porsi un quesito: si può pensare di lavorare con persone che vivono in pianta stabile lontani dalla sede aziendale? Se si riesce ad operare in modo efficace anche a distanza, perché limitare i processi di selezione a candidati che abitino in prossimità della sede, o  disponibili ad un trasferimento di residenza?

In questo nuovo scenario, l’azienda informatica di Bolzano potrebbe valutare il web designer di Alcamo. La banca d’affari di Londra, l’addetto al costumer care di lingua italiana in grado di lavorare dalla sua casa di Lissone.

In molti settori come quello del gaming, questa  opzione viene utilizzata già da molti anni, con grande successo.

Rispetto al caso Italia, si inizia a parlare di  south working, la possibilità di poter lavorare senza dover necessariamente emigrare verso nord. A questo si aggiunge anche il fatto di poter sfruttare il più basso costo della vita nelle regioni del sud, che godrebbero esse stesse di una maggiore circolazione di denaro sul territorio. Un circolo virtuoso che, a sua volta, potrebbe generare nuove opportunità e posti di lavoro.

E’ ancora presto per avere le idee chiare rispetto a un tema così complesso: un’ipotesi così affascinante ed allineata con il mondo del lavoro del futuro, non deve però necessariamente essere scartata a priori.

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Quando si parla di cambiamento, sono due gli aspetti che devono essere considerati.

Da una parte il cambiamento che viene scelto come percorso di miglioramento aziendale: ad un’analisi preliminare, segue l’implementazione degli step successivi, con una visione a lungo termine.

Dall’altra, invece, la risposta all’emergenza: si opera subito, in modalità provvisoria, senza avere definito i parametri di esecuzione e valutazione.

La seconda ipotesi è quella che la maggior parte delle aziende italiane si trova a vivere in questo periodo, in particolar modo rispetto al lavoro in remoto ed alla gestione di clienti, partner e fornitori.

Usciti da una prima fase di emergenza pura, l’obiettivo primario diventa quello di consolidare il cambiamento “forzato”, in un modello operativo in grado di portare benefici a medio e lungo termine. Quando parliamo di smart working e di digitalizzazione dei processi di marketing e vendita, non stiamo affrontando un tema nuovo. Si tratta di un trend già in essere non solo in aziende nate in una dimensione virtuale, ma presente in tutto il mondo,ad ogni livello.

Un interessante articolo apparso su Ninja Academy, ipotizza che la maggior parte di posti di lavoro post Covid-19 saranno basati sulla flessibilità: il risultato sarà quindi un maggiore livello di alfabetizzazione digitale all’interno delle aziende italiane.

Per finalizzare queste dinamiche, è necessario canalizzare queste competenze attraverso un processo che preveda:

– mappatura delle attività aziendali, propedeutica ad una loro corretta digitalizzazione
– valutazione della procedura di sicurezza dei dati
– rispetto delle normative sulla privacy di collaboratori, clienti e fornitori

Alla base di tutto questo vi sarà poi la necessità di individuare candidati qualificati e preparati a queste nuove modalità di lavoro e di pensiero.

Le tessere del puzzle sono molte: chi riuscirà ad avere una migliore visione d’insieme, riuscirà a garantire a se stesso ed alla propria azienda risultati e benefici a lungo termine.

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In queste prime settimane di riassestamento nel mondo del lavoro post covid-19, le attività pubbliche e private meglio organizzate in termini di digitalizzazione hanno avuto un notevole vantaggio. Lo stesso vale anche per le nazioni: l’esempio più significativo è quello dell’Estonia.

L’economia della repubblica baltica è da tempo impostata su dinamiche tech avanzate. Il governo è digital e la maggior parte dei servizi del paese possono essere somministrati elettronicamente. Da tempo i cittadini estoni votano online e tutte le ricette e procedure mediche sono digitali. Digitale è anche la carta d’identità che contiene all’interno di un unico documento non solo le informazioni personali, ma anche quelle relative a salute, fisco e buona condotta. A livello di affari è poi possibile richiedere una residenza fiscale digitale, che permette di pagare le imposte nel paese baltico. Di fatto, una forma di immigrazione digitale.

Il 99% delle abitazioni estoni è collegato ad una delle più veloci reti internet del continente, mentre il sistema educativo è leader mondiale nell’utilizzo e nello sviluppo di tecnologie digitali. In altre parole, quando il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, la prospettiva di lavorare, studiare o fare shopping dalle proprie abitazioni, non ha provocato in Estonia le stesse difficoltà verificatesi nella maggior parte degli altri paesi. Guardando a quello che già da ieri era il modello di sviluppo dell’Estonia, possiamo trovare molti spunti utili per creare l’esempio su cui realizzare la nostra realtà di domani.

Per maggiori informazioni sul caso Estonia, potete fare riferimento a questo articolo pubblicato da The New Yorker.

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Già da tempo la tecnologia digitale offre l’opportunità di affrontare un colloquio online.
Si tratta di una dinamica molto utile in fase di primo contatto tra le aziende ed i candidati: in caso di esito positivo si procede poi con il più tradizionale incontro di persona.

Di fronte all’emergenza Covid-19 anche questa seconda fase può essere gestita a distanza.
Ecco alcuni suggerimenti per arrivare preparati all’appuntamento.

1) Strumentazione tecnica
Il Recruiter vi comunicherà la piattaforma da utilizzare. Effettuate un test preliminare per verificare il corretto funzionamento dei dispositivi necessari: computer, videocamera e microfono (conviene sempre utilizzare un microfono esterno invece di quello del pc). Ricordate che in questo periodo anche le connessioni internet sono sotto stress: se siete in casa con altre persone accertatevi che le persone che vivono con voi non utilizzino troppa banda (Netflix, streaming video, etc.). Utilizzate le cuffie per evitare all’intervistatore lo spiacevole effetto del rimbombo della sua voce.

2) Ambiente
Compatibilmente con la vostra situazione abitativa, scegliete un ambiente isolato dal resto dell’abitazione. Anche una voce o un suono che a voi sembrano lontani, vengono catturati dal microfono. Uno sfondo neutro è la soluzione migliore. Accertatevi che la videocamera vi riprenda ad altezza occhi. Scegliete una distanza intermedia, che rispecchi l’esperienza dal vivo: nè troppo vicina, nè troppo lontana. Un’errata gestione delle distanze può generare disagio anche in remoto.

3) Logistica
Per prevenire i possibili inconvenienti dell’ultimo momento, siate pronti e disponibili con abbondante anticipo rispetto all’orario che vi è stato assegnato.

Restano poi validi tutti gli accorgimenti utili per i colloqui dal vivo:
– abbigliamento e look devono essere consoni all’occasione ed alla tipologia di interlocutore
– informatevi sull’azienda o sul Recruiter che dovrete incontrare. Linkedin ed il sito web aziendale sono sempre ottime fonti
– preparate anche voi domande di approfondimento da rivolgere al vostro interlocutore

Insomma, ricordatevi che anche online bisogna subito fare una buona prima impressione.

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