La forza di volontà è collegata all’autocontrollo.

È l’abilità di resistere alla distrazione, rimanere concentrati e ritardare la gratificazione.


Una ricerca condotta dallo psicologo Roy Baumeister mostra come la forza di volontà vada di pari passo con i livelli di energia: il che ci aiuta a capire perché essa si “consumi” con il passare delle ore.

Ad esempio, le persone che stanno cercando di perdere peso, spesso scoprono di riuscire a seguire una dieta fino a sera, per poi soccombere a una vaschetta di gelato prima di dormire.

Questo spiega anche la fatica collegata al processo decisionale, ovvero il fatto che, quando siamo costretti a risolvere una serie di problemi difficili, la qualità delle soluzioni diminuisca nel tempo.

Se si parla con i grandi performer dello spettacolo, la maggior parte concorda sul fatto che la forza di volontà scemi nel corso della giornata: si tratta di qualcosa direttamente collegato a ciò che Baumeister ha definito “esaurimento dell’ego”.


Se la forza di volontà si indebolisce con il passare delle ore, diventa importante non forzarla oltre il dovuto.

La strategia corretta è quindi quella di iniziare la propria giornata affrontando prima l’impegno più gravoso, passando poi (in ordine decrescente) a quelli più semplici: mettere quindi al primo posto della propria lista di cose da fare quel compito che, una volta portato a termine, produrrà il risultato più importante del giorno.

Dato che la forza di volontà diminuisce nel tempo, il secondo e il terzo obiettivo sembreranno essere più difficili, ma si sarà affrontata l’attività più importante con il massimo delle forze.


Anche se il ragionamento fila, ci sono però alcuni aspetti che meritano di essere approfonditi.

Quando siamo stanchi, l’attività della corteccia prefrontale diminuisce: questo porta a gravi deficit di prestazione. L’attenzione vacilla, la cognizione rallenta e gli errori di elaborazione arrivano con sempre maggiore frequenza. Questo va a colpire in particolar modo la creatività.

Quando siamo stanchi, non ci preoccupiamo di cercare collegamenti tra le idee: si ha la tendenza a prendere la scelta più facile a disposizione, senza badare alle conseguenze.

Quindi come fare per ripristinare la forza di volontà in questi momenti?

Se aumentare i livelli di energia attraverso l’alimentazione può essere di aiuto, sono comunque sempre necessari alcuni “cambiamenti di stato”: i già citati performer suggeriscono attività quali pause, meditazione ed esercizio fisico.

Tutti questi interventi non solo resettano la nostra fisiologia, ma cambiano anche il nostro stato e attivano la nostra neurobiologia, che sembra essere un’altra parte fondamentale di questo puzzle.

Alla luce di tutto questo, allora, affrontiamo ogni mattina con slancio, pronti a dedicarci,  per prima cosa, alle attività più difficili.

 

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Il segreto della motivazione Il primo incontro tra i due giovani psicologi Edward Deci e Richard Ryan avvenne nel 1977 presso il campus dell'Università... Leggi

Il primo incontro tra i due giovani psicologi Edward Deci e Richard Ryan avvenne nel 1977 presso il campus dell’Università di Rochester.

Deci aveva appena iniziato la pratica professionale, mentre Ryan era ancora un dottorando. Entrambi condividevano l’interesse per la Scienza della Motivazione, argomento che hanno condiviso e consolidato nel corso di una collaborazione di oltre cinquant’anni, che ha ribaltato la maggior parte delle idee fondamentali in questo campo.

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Prima che Edward Deci e Richard Ryan non aprissero la strada a quello che oggi conosciamo come Teoria dell’Autodeterminazione, gli psicologi dell’ epoca definivano la motivazione semplicemente come “l’energia necessaria per l’azione”.

Il parametro di valutazione era soltanto binario: una persona o aveva la giusta quantità di motivazione o non l’aveva. L’ energia motivazionale veniva considerata come una semplice caratteristica del singolo. In pratica, era possibile misurare la quantità della motivazione che una persona provava, ma non la qualità o la tipologia della stessa.

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Le ricerche dei due studiosi li avevano invece portati a credere che vi fossero diversi tipi di motivazione, in grado di produrre risultati diversi. Decisero quindi di testare le loro idee attraverso un confronto diretto.

In una lunga serie di esperimenti, contrapposero le motivazioni interne (come passione e sentimento)  a quelle esterne (come prestigio e successo), mettendo i risultati a confronto.

La scoperta fu che la motivazione interna è molto più efficace della motivazione esterna in ogni situazione, eccetto quelle in cui i nostri bisogni primari non sono stati soddisfatti. Inoltre emerse che una delle divisioni cruciali si trovava tra la motivazione controllata (motivazione esterna) e la motivazione autonoma (motivazione interna).

Se sei stato sedotto, costretto oppure pressato a fare qualcosa, questa è una motivazione controllata, è un qualcosa che si deve fare.

La motivazione autonoma è invece l’opposto, quando ci si trova a fare qualcosa semplicemente per scelta.

Deci e Ryan in questo modo scoprirono che, in ogni situazione, la motivazione autonoma ha il sopravvento sulla motivazione controllata. L’ autonomia è sempre il motore più potente.

Infatti, in molte situazioni, la motivazione controllata non produce i risultati desiderati, anzi. Quando sono sotto pressione, le persone tendono a cercare scorciatoie.

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L’esempio citato da Deci ama è il caso Enron.

Nei primi anni 2000, il colosso dell’energia decise che il modo migliore per motivare i propri collaboratori i fosse quello di dare ai dipendenti più produttivi importanti incentivi economici, palese esempio di motivazione per seduzione.

Presto la gente capì invece che il modo migliore per ottenere quei bonus era quello di gonfiare artificialmente i prezzi delle azioni, commettendo una frode aziendale che avrebbe in seguito portato la società al fallimento.

Il caso Enron viene spesso presentato come un ammonimento rispetto ai rischi collegati ad avidità e arroganza: in realtà si tratta di un aneddoto su come la motivazione sbagliata possa facilmente produrre comportamenti sbagliati.

 Secondo Deci e Ryan, si sfrutta correttamente l’autonomia quando si agisce per “interesse e divertimento”, allineati “con le nostre convinzioni e valori fondamentali”.

Detto diversamente, il sistema di ricerca ama essere il responsabile dei tipi di risorse che si sta cercando.

 Un’altro elemento scoperto dai due studiosi è che l’autonomia che ci trasforma in una versione molto più efficace di noi stessi. La spinta neurochimica da essa fornita, aumenta la nostra spinta e implementa una serie di abilità aggiuntive.

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Quando controlliamo la nostra nave, siamo più concentrati, produttivi, ottimisti, resistenti, creativi e sani. Il punto? Ottimizzate l’autonomia il più possibile. La vostra biologia vi ringrazierà.

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Nel corso della sua storia ultracentenaria, la squadra di football americano della University of Alabama ha vinto oltre 17 titoli nazionali: 5 sono arrivati negli ultimi 13 anni sotto la guida del capo allenatore Nick Saban.

È quindi più che lecito chiedersi se l’allenatore originario della West Virginia abbia qualche segreto alla base di tali risultati.

La risposta sembra essere nella strategia di pensiero che insegna ai propri giovani atleti, chiamata the process (il processo), oggi popolare anche tra molti atleti professionisti:

– ogni situazione non viene mai vista a livello generale, in particolar modo quelle che possono essere percepite come difficili: partite particolarmente impegnative, vincere il campionato, recuperare una situazione di grande svantaggio

– i giocatori sono invitati invece a focalizzarsi nel fare le più piccole cose in modo corretto: allenarsi con il massimo dell’impegno, applicare gli schemi alla perfezione, completare ogni singola azione di gioco.


Una logica simile a quella resa famosa da Nick Saban nel famoso discorso dello spogliatoio di “Ogni Maledetta Domenica”, ma che con coach Saban trova una sua implementazione di successo nel mondo reale.

Una campionato dura diversi mesi.

Una partita, un paio d’ore.

I touch down da recuperare possono essere 3-4.

Ma ogni singola azione si esaurisce in pochi secondi, ed i campionati e le partite sono il risultato globale di tutte le singole azioni.


Se la squadra segue the process, ecco che si riescono a superare le criticità, raggiungendo eventualmente anche la cima della classifica, senza essersi dovuti focalizzare direttamente sull’ostacolo.

Allo stesso tempo, organizzare le singole azioni corrette, nel giusto ordine, si rivela determinante anche nel lavoro e nella vita.

Non solo gli ostacoli verranno superati rapidamente, ma si sarà così concentrati sul mettere un piede davanti l’altro, da non rendersi nemmeno conto della loro presenza lungo il cammino.

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In queste ultime settimane si è parlato molto di mindset.

Tema da tempo popolare in ambito aziendale, rischia di acquisire una connotazione ambigua proprio per via della sua popolarità. Per fare chiarezza, abbiamo analizzato il pensiero degli addetti ai lavori.

Carol Dweck, docente di psicologia a Stanford, afferma che il mindset è una self-perception (percezione di se stessi) che le persone hanno su di loro, e che si  differenzia  in due tipologie:

fixed mindset (mindset fisso)

growth mindset (mindset di crescita)

 


 

Nel primo caso, caratteristiche personali quali abilità creative, carattere e intelligenza, vengono percepite come statiche ed immutabili.

Ne deriva che, in una simile prospettiva, il successo  dipende dall’intelligenza acquisita.

Abilità e competenze predefinite sono valutate attraverso standard altrettanto predefiniti.

La ricerca del successo diventa un qualcosa  collegato alla sensazione stessa di sentirsi intelligenti e qualificati.

La seconda ipotesi, trova invece nelle sfide il suo ambiente ideale.

L’eventuale fallimento  non viene visto come prova di mancanza di intelligenza: si tratta dell’inevitabile prezzo da pagare sulla via della crescita, ed è utile ad ampliare le proprie abilità.

 


 

Alla luce di quanto sopra, il nostro rapporto con successi e fallimenti è enormemente influenzato da quale di queste due tipologie sia prevalente.

In questa prospettiva, diventa utile chiedersi quale sia il modo migliore per ottimizzare il nostro mindset.

Michael Gervais, psicologo clinico e consulente della squadra di football americano dei Seattle Seahawks, parla di tre diversi kinds of mind (tipologie di approccio mentale)

 

negative mind (approccio mentale negativo)

Autocritica, dubbi, preoccupazioni e pensieri limitanti portano ad una costrizione della propria esperienza interiore. Una specie di soffocamento cognitivo, simile a quello del fixed mindset analizzato in precedenza.

positive mind (approccio mentale positivo)

E’ l’ottimismo a farla da padrone, in uno scenario analogo a quello del growth mindset.

no mind (mancanza di approccio mentale pre-definito)

E’ quello che viene definito stato di flow (flusso). I pensieri scompaiono, e si vive immersi nel presente. La situazione ideale per vivere ed operare al meglio del proprio potenziale.

Secondo Gervais, non si può passare direttamente da uno stato di negative mind ad uno di no mind.

Invece, se si resta abbastanza a lungo in uno stato di positive mind, o comunque con un dialogo verso se stessi con toni calmi e neutri, ecco che si riesce ad operare in uno stato di flow.

 


 

Che cosa possiamo imparare da tutto questo?

Affrontare la vita ed il lavoro, in modo da bloccare in origine il pensiero negativo e limitante, che quasi sempre ci creiamo da soli, diventa indispensabile per poter raggiungere una performance ottimale.

Non stiamo parlando di una forma di pensiero positivo di stampo esoterico, ma di un approccio tanto razionale quanto efficace, per raggiungere quello stato mentale in cui tutto scorre al meglio.

Ed allora il mindset non sarà solo un argomento alla moda, ma uno strumento concreto a nostra disposizione.

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Come tanti attori a inizio carriera George Clooney era solito presentarsi ai provini ed essere puntualmente scartato.

La futura star ricorda che il suo desiderio, il suo sogno, era quello di fare colpo sui produttori. Quando questo non accadeva si sentiva ferito ed offeso.

Uno scenario simile a quella che molti di noi hanno provato di fronte ad un colloquio di lavoro andato male.

Clooney racconta che le cose cambiarono nel momento in cui  iniziò a pensare a come avrebbe visto le cose se si fosse trovato al posto dei produttori.

Per loro il casting aveva l’obiettivo di risolvere un problema attraverso la selezione dell’attore più idoneo al ruolo. E nel fare questo nutrivano l’illusione che il prossimo ad entrare dalla porta avrebbe potuto essere il migliore.

Grazie a questa intuizione, iniziò a vedere l’audizione non solo come opportunità per esprimere il proprio talento, ma anche per denotare il valore aggiunto che avrebbe rappresentato per la produzione. Dimostrare di aver capito ciò di cui regista e produttori avevano bisogno, e che lui avrebbe incarnato in ognuna delle fasi di lavoro.

Come la storia sia andata a finire, lo sappiamo già.

Ricordate, quindi, che più è importante il ruolo per cui ci candidiamo, più diventa essenziale vedere le cose da un diverso punto di vista. Il team di Tor è al vostro fianco per farlo nel miglior modo possibile.

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