E’  possibile fare una valutazione della performance sul lavoro analizzando il tipo di browser che si preferisce usare?

Adam Grant, stimato professore alla Wharton School dell’Università della Pennsilvanya, sostiene questo (e molto altro ancora) nei suo libri Originals: How Non-Conformists Move the World e Give and Take: A Revolutionary Approach to Success.

Dall’analisi di Grant, emerge che gli utilizzatori di Firefox e Chrome sono molto più performanti di coloro che scelgono Explorer e Safari. La loro permanenza media nelle stesse posizioni lavorative supera quelle dell’altro gruppo del 15%.

Quale può essere la ragione?

In un discorso tenuto presso un evento di TED (che potete vedere, anche con i sottotitoli in italiano, utilizzando questo link), il professore americano ha raccontato le tre cose che permettono di riconoscere gli Originals.

Grant spiega che si tratta di persone anticonformiste, che non si limitano ad avere nuove idee ma se ne fanno promotori. Essi portano cambiamento e creatività: sono coloro sul cui successo si è pronti a scommettere.

Ma perchè è importante saperli riconoscere? Sono le persone  che un datore di lavoro vorrebbe sempre assumere.


La cosa che colpisce di più rispetto agli Originals, è che sono diversi da come ce li si potrebbe aspettare.

Per individuare uno di loro, è necessario rispondere a tre domande.

E’ soggetto ad episodi di Vuja De?

Tende a procrastinare?

Ha paura di non riuscire ad agire?

Vediamo insieme le risposte


Vuja De: che cosa un browser può raccontare delle persone

La ragione per cui gli Originals usano Firefox e Chrome piuttosto che Internet Explorer o Safari, non ha nulla a che vedere con la performance. Grant spiega che tutti i browser menzionati hanno prestazioni pressapoco simili. La differenza sta in quello che gli Originals pensano: per loro è importante non accettare mai la soluzione di default.

Tutti sanno che cosa è un déjà vu.

Con il vuja de, invece, si riesce a percepire in un modo completamente nuovo qualcosa già visto in precedenza.

Stephen Covey ha chiamato questa situazione cambiamento di paradigma (paradigm shift).

Per Grant, è possibile allenare il proprio cervello a vedere il mondo in modo diverso, mettendo in discussione le impostazioni di default della propria vita.


Procrastinazione: come vederla sotto un altro punto di vista

Il professore della Wharton, individua anche un altro tratto comune tra gli Originals: la tendenza a procrastinare (anche se non troppo).

Di solito, chi aspetta l’ultimo momento per fare le cose perde tempo in cose non importanti, e non crea nuove idee. Sul lato opposto, le persone iperattive sono sempre in un tale stato di frenesia da non avere spazio per la creazione di pensieri originali. Gli Originals sembrano invece porsi in un punto strategico tra questi due estremi: per loro un minimo di procrastinazione sembra quindi dare il tempo necessario a valutare idee divergenti, pensare in modo non lineare, trovare collegamenti inaspettati.


La paura di non riuscire ad agire : Elon Musk

L’ultimo tratto caratterizzante che gli Originals hanno in comune è la paura di non riuscire ad agire. L’esempio classico è Elon Musk: Grant racconta che l’imprenditore gli ha raccontato che non si aspettava il successo della Tesla, ed era sicuro che ill primo lancio dello SpaceX non sarebbe arrivato in orbita.

Nonostante questo, era per lui fondamentale provarci.

In ambito aziendale, molte idee che potrebbero portare ad enormi risultati rimangono nascoste per via della paura di sbagliare o di essere giudicati.

Anche gli Originals hanno cattive idee, ma le vedono come uno step indispensabile per la generazione di quelle nuove. Vale quindi sempre la pena provare ad agire.


Arrivati a questo punto, abbiamo tutti gli elementi per identificare un Original, e sfruttarne al meglio il potenziale.

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Nel corso della sua storia ultracentenaria, la squadra di football americano della University of Alabama ha vinto oltre 17 titoli nazionali: 5 sono arrivati negli ultimi 13 anni sotto la guida del capo allenatore Nick Saban.

È quindi più che lecito chiedersi se l’allenatore originario della West Virginia abbia qualche segreto alla base di tali risultati.

La risposta sembra essere nella strategia di pensiero che insegna ai propri giovani atleti, chiamata the process (il processo), oggi popolare anche tra molti atleti professionisti:

– ogni situazione non viene mai vista a livello generale, in particolar modo quelle che possono essere percepite come difficili: partite particolarmente impegnative, vincere il campionato, recuperare una situazione di grande svantaggio

– i giocatori sono invitati invece a focalizzarsi nel fare le più piccole cose in modo corretto: allenarsi con il massimo dell’impegno, applicare gli schemi alla perfezione, completare ogni singola azione di gioco.


Una logica simile a quella resa famosa da Nick Saban nel famoso discorso dello spogliatoio di “Ogni Maledetta Domenica”, ma che con coach Saban trova una sua implementazione di successo nel mondo reale.

Una campionato dura diversi mesi.

Una partita, un paio d’ore.

I touch down da recuperare possono essere 3-4.

Ma ogni singola azione si esaurisce in pochi secondi, ed i campionati e le partite sono il risultato globale di tutte le singole azioni.


Se la squadra segue the process, ecco che si riescono a superare le criticità, raggiungendo eventualmente anche la cima della classifica, senza essersi dovuti focalizzare direttamente sull’ostacolo.

Allo stesso tempo, organizzare le singole azioni corrette, nel giusto ordine, si rivela determinante anche nel lavoro e nella vita.

Non solo gli ostacoli verranno superati rapidamente, ma si sarà così concentrati sul mettere un piede davanti l’altro, da non rendersi nemmeno conto della loro presenza lungo il cammino.

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In queste ultime settimane si è parlato molto di mindset.

Tema da tempo popolare in ambito aziendale, rischia di acquisire una connotazione ambigua proprio per via della sua popolarità. Per fare chiarezza, abbiamo analizzato il pensiero degli addetti ai lavori.

Carol Dweck, docente di psicologia a Stanford, afferma che il mindset è una self-perception (percezione di se stessi) che le persone hanno su di loro, e che si  differenzia  in due tipologie:

fixed mindset (mindset fisso)

growth mindset (mindset di crescita)

 


 

Nel primo caso, caratteristiche personali quali abilità creative, carattere e intelligenza, vengono percepite come statiche ed immutabili.

Ne deriva che, in una simile prospettiva, il successo  dipende dall’intelligenza acquisita.

Abilità e competenze predefinite sono valutate attraverso standard altrettanto predefiniti.

La ricerca del successo diventa un qualcosa  collegato alla sensazione stessa di sentirsi intelligenti e qualificati.

La seconda ipotesi, trova invece nelle sfide il suo ambiente ideale.

L’eventuale fallimento  non viene visto come prova di mancanza di intelligenza: si tratta dell’inevitabile prezzo da pagare sulla via della crescita, ed è utile ad ampliare le proprie abilità.

 


 

Alla luce di quanto sopra, il nostro rapporto con successi e fallimenti è enormemente influenzato da quale di queste due tipologie sia prevalente.

In questa prospettiva, diventa utile chiedersi quale sia il modo migliore per ottimizzare il nostro mindset.

Michael Gervais, psicologo clinico e consulente della squadra di football americano dei Seattle Seahawks, parla di tre diversi kinds of mind (tipologie di approccio mentale)

 

negative mind (approccio mentale negativo)

Autocritica, dubbi, preoccupazioni e pensieri limitanti portano ad una costrizione della propria esperienza interiore. Una specie di soffocamento cognitivo, simile a quello del fixed mindset analizzato in precedenza.

positive mind (approccio mentale positivo)

E’ l’ottimismo a farla da padrone, in uno scenario analogo a quello del growth mindset.

no mind (mancanza di approccio mentale pre-definito)

E’ quello che viene definito stato di flow (flusso). I pensieri scompaiono, e si vive immersi nel presente. La situazione ideale per vivere ed operare al meglio del proprio potenziale.

Secondo Gervais, non si può passare direttamente da uno stato di negative mind ad uno di no mind.

Invece, se si resta abbastanza a lungo in uno stato di positive mind, o comunque con un dialogo verso se stessi con toni calmi e neutri, ecco che si riesce ad operare in uno stato di flow.

 


 

Che cosa possiamo imparare da tutto questo?

Affrontare la vita ed il lavoro, in modo da bloccare in origine il pensiero negativo e limitante, che quasi sempre ci creiamo da soli, diventa indispensabile per poter raggiungere una performance ottimale.

Non stiamo parlando di una forma di pensiero positivo di stampo esoterico, ma di un approccio tanto razionale quanto efficace, per raggiungere quello stato mentale in cui tutto scorre al meglio.

Ed allora il mindset non sarà solo un argomento alla moda, ma uno strumento concreto a nostra disposizione.

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